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Il progetto dello spazio

Lo spazio non esiste, ma si può costruire.
L’Architetto Francesco Librizzi ha progettato questa casa come un grande loggia urbana. Non ha esattamente la dimensione intima protetta di un interno, quanto la proiezione di un portico su uno spazio pubblico. Il rapporto tra interno ed esterno è l’aspetto più rilevante dell’identità dell’appartamento.

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Una casa “urbana”

Francesco Librizzi – Architetto, appartamento Milano (Italia)

Abitare è scegliere un luogo in cui ci si riconosce. La casa è prima tutto un posto in una città. E’ una presa di posizione.
La città dove si vive, il quartiere, i mezzi con cui ci si sposta. Abitare è “stare” ma è anche il suo reciproco: “andare”.
Il luogo in cui abitiamo parla delle nostre destinazioni: a casa si torna, ma da casa anche costantemente si parte.
E’ così che ho scelto dove vivere.

Sono sempre stato appassionato dalle figure di progettisti non etichettabili.
Architetto o designer? Urbanista o conservatore?
Ovviamente riconosco che le specializzazioni in genere sono necessarie per ottenere grande qualità.
Ma alcune figure sfuggono a recinti netti.
Ne abitano più di uno o si collocano nello spazio che rimane tra i recinti consueti.
Io mi occupo di progetto a diverse scale, dal disegno dello spazio al rapporto con gli oggetti.
Mi occupo di come gli abitanti di una città possano vivere uno spazio per più generazioni e di come gli spettatori di una mostra potranno visitare delle opere solo per poche settimane.
Devo immaginare situazioni in cui uomini, luoghi e oggetti stiano insieme.
Costruisco relazioni tra contenuti diversi, fatte di influenze, distanze, memoria.
Sono sempre stato appassionato di design.

Il mondo materiale degli oggetti è l’espressione della mediazione che gli uomini mettono in atto sul mondo. Per mettersi in relazione con l’esterno l’uomo trasforma, crea oggetti intermedi che migliorano e interpretano la sua aderenza o la sua distanza dalla natura. Tagliare la frutta con li coltello invece di morderla. Sedersi su una sedia e non per terra.
A Dakar in Senegal un giorno prima di un viaggio in macchina comprai un caricatore da viaggio per il mio telefono. Era contenuto in un blister di plastica. Non riuscivo ad aprirlo a mani nude. Chiesi a uno dei gestori del negozio se avesse un coltello da prestarmi. Il ragazzo prese il blister, lo avvicinò alla bocca e usò i denti per squarciare la confezione e poi finire di aprilo a mano.
I denti. Io non ci avevo pensato. era troppo diretto per me.
Continuamente creiamo con i nostri progetti qualcosa che metta in atto una relazione mediata. Una sala da the per bere il the. Non lo beviamo lì dove cresce.
La costruzione di questa relazione è la mia passione e l’oggetto constante del mio interesse e della mia ricerca. E’ il mio lavoro.

Libertà significa accettare che gli abitanti vivranno la casa in modi non immaginati ancora da loro e non immaginabili nemmeno dal progettista. Lasciare la possibilità di essere diversi. Questo non significa creare spazi neutri, privi di identità. E’ in questo che il progetto di architettura e design deve evolvere assieme al nostro modo contemporaneo di abitare.

Quando visitai per la prima volta la casa in cui adesso vivo per valutarne l’acquisto, non avevo idea del tipo di spazio che mi sarei trovato di fronte.
L’ appartamento in un palazzo all’angolo tra due strade, ha una pianta pentagonale, con un balcone al vertice che si apre su una veduta sulla città. Il fronte principale si apre sui due fianchi con una vista ampia su due delle architetture più significative del 900 italiano, disegnate entrambe da Gio Ponti.
Ero folgorato. In città siamo abituati a punti di vista residuali, cortili interni, strade strette. Non avevo immaginato quel giorno mi sarei trovato in un interno domestico in relazione così forte con il contesto urbano. Di colpo alcune cifre della mia vita si trovavano allineate in quella casa.
La prima è il mio rapporto con Milano, la città in cui ho scelto di vivere e che dal primo giorno mi ha consentito di essere ciò che sono.
La seconda è il mio incontro con Gio Ponti, che al di là del suo poliedrico estro artistico è l’uomo dietro tutte le storie del design e dell’architettura italiane del 900.
Era l’uomo dentro le istituzioni culturali, il fondatore della rivista DOMUS, il grande talent scout che diede spazio ad autori come Sottsass, Nanda Vigo, Gae Aulenti.
E’ inoltre l’architetto che ha segnato con le sue architettura alcuni dei punti notevoli della città di Milano. Fu l’uomo dietro i grandi marchi del design italiano, tra cui FontanaArte, di cui sono Direttore Artistico da qualche anno.
La mia relazione con Milano, la mia identità di progettista, la mia necessità di vivere vicino a una grande hub di mobilità avevano trovato coincidenza. Ero a casa.

Questa casa è un grande loggia urbana. Non ha esattamente la dimensione intima protetta di un interno, quanto la proiezione di un portico su uno spazio pubblico.
Il rapporto tra interno ed esterno è l’aspetto più rilevante dell’identità dell’appartamento.
Prima ancora che condizionare il modo di viverla ciò ha ovviamente influenzato il modo di progettarla. La dimensione introversa della domesticità, trova in genere forma nella creazione di piccoli ambienti molto confortevoli, morbidi, legnosi. Ma un appartamento concepito come una piccola piazza aperta sulla città, si confronta con i materiali dei palazzi di fronte, con le finestre, con la strada, con gli alberi.
Il mio scopo era di lasciare che la città entrasse nella casa e che la casa entrasse nella città.

La forma pentagonale della casa e il grande balcone d’angolo la rendono simile alla prua di una nave. E’ questa è la metafora migliore della casa stessa, che è “urbana” così come una barca è “marina”. Un rapporto di complementarietà quindi in cui lasciar crescere il progetto.
La particolare forma della casa, la rende convessa verso l’esterno ed enfatizza la concavità dell’interno. Progettare e abitare uno spazio intimo ma aperto, accogliente ma dinamico, flessibile ma specializzato era il mio desiderio e il mio obiettivo.
Sembrano posizioni contraddittorie, ma il progetto di architettura nasce proprio dalla capacità di includere le differenze, di dare forma alle contrapposizioni, di inventare mediazioni inedite.
Un progetto flessibile richiede apertura. Un progetto utile richiede chiarezza ed efficacia.
La casa ha una grande spina dorsale che separa e mette in relazione la zona privata della camere da letto, con un grande ambiente articolato. In questo ultimo, cucina, sala da pranzo, salotto e uno piccolo studio privato si dispongono in modo da potere creare un “piano sequenza” continuo, che rispecchia il mio modo flessibile di vivere la casa. Ma offrono anche la possibilità di diventare ambienti separati, perché è fondamentale per me la sensazione di attraversare ambiente diversi.
Sentirsi a casa è una sentimento che si fonda sul riconoscimento della nostra presenza nei luoghi. Sentire di essere in salotto, abitare una parte dello spazio durante i pasti, entrare in cucina sono gli atti fondamentali con cui riconosciamo di essere a casa nostra. E’ possibile generare una sequenza continua di spazi, in cui la configurazione degli arredi seppur fluida e senza confini, sia in grado comunque di generare ambiti riconoscibili. E’ facile separare un ambiente da un altro creando muri e porte. Ma come si fa a lasciare che lo spazio, e quindi noi con esso, fluisca ininterrotto da una zona all’altra e allo stesso tempo sentire la specificità dei diversi ambienti della casa.
Un primo ruolo fondamentale in questo senso è costituito da inserire delle “presenze” importanti.
Oggetti simbolici di grande scala, centri di gravità in grado di influenzare lo spazio e condizionare il modo di viverlo e arredarlo.

Più che muri divisori, due “totem” separano la cucina dal living e questo dalla biblioteca studio.
Il primo è un monolite foderato con delle piastrelle in klinker tridimensionali, disegnate da Giò Ponti per il Palazzo Montedoria, che è proprio lì inquadrato dalle finestre del salotto.
Il totem in casa “guarda l’edificio di Giò Ponti e sono sicuro che viceversa dall’edificio è possibile vedere il monolite in casa. Un cortocircuito: la casa guarda la città e le somiglia. La città guarda la casa e rimane di sasso.
Il secondo totem è un solido in ebano macassar. Grandi pareti divisorie in legni esotici sono un classico di alcuni progetti modernisti come Casa Tugendhat di Mies Van Der Rohe.
Il tipo di cultura che viviamo e che generiamo oggi con i nostri progetti, si nutre di questi rimandi. Sono al contempo gesti manieristi ma anche scorciatoie della memoria che ci aiutano a mettere in discussione ciò che crediamo di conoscere e celebriamo.
La casa quindi gira come un “8” attorno a questi grandi gesti materici e simbolici, creando un flusso dinamico messo in atto da un pavimento importante. Un manto continuo di frammenti di marmo attraversa tutti gli ambienti della casa e genera unione e specificità grazie ai “quadri” che emergono dalle configurazioni pittoriche degli inserti.
La casa quindi da un lato è convessa e si abbandona al suo rapporto con la città, dall’altro grazie al suo layout interno concavo popolato da “presenze” significative, genera un sistema di relazioni molto intime.
Non da ultimo, gli oggetti hanno un ruolo fondamentale nella formazione dell’intimità che ci lega alla casa.
Le cose che abitano la casa sono la memoria solida, sono ciò che è rimasto e ciò che abbiamo scelto. Sono la nostra collezione e la nostra memoria. Il ruolo degli oggetti, possiamo dire, è quello di influenzare lo spazio, di tenerlo insieme e al contempo di esaltare il ruolo delle persone nel rapporto con lo spazio stesso.
Un progetto per un’abitazione contemporanea oggi ritengo si strutturi attorno alla necessità di offrire una grandissima libertà nel modo di vivere la casa.
Libertà significa accettare che gli abitanti vivranno la casa in modi non immaginati ancora da loro e non immaginabili nemmeno dal progettista.
Lasciare la possibilità di essere diversi.
Questo non significa creare spazi neutri, privi di identità.
E’ in questo che il progetto di architettura e design deve evolvere assieme al nostro modo contemporaneo di abitare.

Non possiamo non notare che le nostre vite hanno perso dei passaggi formali e delle gerarchie per acquistare una diversa ritualità domestica.
Lavorare, incontrare gli altri, cucinare non sempre sono momenti distinti nel tempo e nello spazio. Queste attività si sviluppano in una sequenza sempre più privata e tagliata su misura per ognuno di noi. Eppure riusciamo a condividere questa nuove disarticolate funzioni personali su una dimensione collettiva.
La casa è ambiente di lavoro, mentre è anche il luogo dei giochi o il posto dove prepariamo con sempre maggiore attenzione i nostri cibi. Le nostre case si stanno evolvendo perché noi ci siamo evoluti. Noi non viviamo più come vivevano i nostri nonni, ma nemmeno come i nostri padri. Siamo individui mentre siamo anche comunità, siamo a casa mentre siamo ovunque. La buona educazione che ci guidava nel fare una cosa alla volta, soprattutto a casa nei riti attorno alla tavola è completamente stravolta.
Il galateo non ci racconta più. Allo stesso modo le nostre case rischiano di non seguire il modo in cui potremmo abitarle.
Più che una “informalità”, la nostra generazione si trova a vivere una “diversa formalità”.
La nostra attenzione è diventata multicentrica e così le nostre case hanno molti poli che sono i nodi della nostra rete di relazioni.
A me piace cucinare e condividere il momento della preparazione con i miei ospiti.
La preparazione è parte dell’invito a cena.
Quindi dove si parla con gli amici? In salotto o in cucina? Il cuoco è solo uno? Il pasto inizia solo quando è servito in tavola? Il tempo e la forma dei nostri riti ci chiedono case nuove, come noi.
Quando sono in casa ho bisogno di potere attraversare tutte le funzioni dell’abitare in un flusso continuo. A casa sono un ospite che deve essere nello stesso tempo un professionista e un casalingo. Faccio riunione di lavoro mentre asciugo il bucato che mi servirà l’indomani in valigia per un viaggio improvviso.
Siamo disposti a tutto e sempre pronti: le nostre case deve essere come noi.
Una mia cara amica, alla prima visita in questa casa mi disse: ti somiglia proprio.
Non sapevo come interpretare.
L’identità di un individuo non nasce da una scelta e dalla conseguente costruzione di un profilo.
L’identità è la maturazione naturale di un frutto. Non scegliamo ciò che siamo. Abbandonarsi al progressivo svelamento della nostra identità lungo il corso della nostra vita richiede curiosità, pazienza, accettazione, passione.
La mia casa sicuramente somiglia a ciò che ho amato, che ha trovato spazio nella mia fantasia, che ho provato a conquistare. Somiglia al modo in cui penso, al modo in cui vivrei. Somiglia a ciò che vorrei vedere mentre sono a casa mia. Somiglia a ciò che ho trovato nella mia vita.

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